di Francesca Franco
All’origine della multiforme, eterogenea ricerca di Franco Losvizzero è la pratica quotidiana del disegno: una linea tenace e mutevole quanto la polvere di grafite, pronta a traghettare il proprio autore dalla realtà a lui nota verso un’immagine, un’idea, un luogo che non sa di conoscere. Il disegno è il punto d’incontro e negoziazione privilegiato tra l’esterno, che avanza con la sua molteplicità di forme tutta da interpretare, e l’artista, che quelle parvenze riceve e scandaglia per ottenere informazioni, e che a sua volta proietta, irraggiando al contempo se stesso e il proprio modo di comprendere il mondo.
Dotato quant’altri mai di un sé proliferante, Losvizzero trasferisce sempre un po’ di sé nei mostri che popolano il suo immaginario poetico, e che con i loro vizi e le loro virtù hanno composto, negli anni, il pantheon di una personale cosmologia. Sono Diablo-Bianco, Mangia-bimbi, Dragon, la Donna-lupo, Omogatto, Lady Rabbit, Palmer: fantastiche creature risultanti dalla contaminazione innaturale di elementi inconciliabili, che scatenano nel riguardante reazioni conflittuali tra repulsione e tenerezza, incanto e paura. L’artista prende in prestito dall’antica mantica un teriomorfismo teso a valorizzare nella dimensione umana aspetti divini del mondo animale (come accadeva nelle civiltà remote del Medio Oriente, dai Sumeri agli Assiro-Babilonesi al Regno egizio) o, al contrario, aspetti regressivi nell’informe e nel caos (come narra la mitologia greco-romana), per indagare la complessità delle emozioni che si agita sotto la nostra pelle e l’ambiguità dei rapporti che instauriamo con “l’altro”. Dove “l’altro” estraneo è in primis il corpo che abitiamo e che siamo. Quel Sé intimo e buio, che diamo per scontato e che in silenzio sempre ci parla[1]. La voce del corpo s’intitola, infatti, il trattato cui l’artista sta lavorando negli ultimi cinque anni, muovendo dalla lezione drammaturgica e psicomagica di Alejandro Jodorowsky.
Da qui, l’urgenza di arrivare a un significato del mondo non attraverso la mediazione del linguaggio o della logica ma, al contrario, affidandosi al pensiero non cosciente del corpo e alla fisicità del suo fare: i segni di matita tracciati sulla carta, i colori stesi sulla tela, il materiale plastico-ceroso da modellare “alchemicamente”, gli oggetti collezionati e i materiali trovati da assemblare e trasformare in immagine. «Il potere degli dèi si sposta dentro di noi, in qualcosa che è ancora invisibile ma che sappiamo essere parte di noi benché sfugga la nostro controllo», scrive — non a caso — William Kentridge in Six Drawing Lessons (2016).
Nel progetto Teatrino di burattini (in programma a settembre al Macro) questa fiducia nella fisicità del corpo-pensiero si amplifica in termini di rappresentazione teatrale e drammatizzazione scenica e si approfondisce attraverso la recitazione, la gestualità e la mimica sul palco, affidati questi ultimi tanto ai performer di una compagnia d’improvvisazione guidati da Antonio “Bilo” Canella, quanto al pubblico — adulti e bambini — invitato a partecipare in prima persona al gioco serio dell’arte, vestendo una maschera, interpretando un personaggio creato dall’artista. L’amore per il teatro e il circo, d’altra parte, attraversa sin dall’inizio la ricerca di Franco Losvizzero, così come la passione per il cinema. Già nel 2005, nella personale Carillon. Anatomie meccaniche alla galleria Altri lavori in corso, si esibivano automi, bambole meccaniche, burattini e marionette semoventi, come Pagliaccio arancio e il Sig. Mario Netta, seguiti da Gigo e Giga Robot (2008), Cavaliere azzurro (2008) e l’immancabile Pinocchio, protagonista nel 2009 di un’altra personale, dal titolo Io come un dio, ospitata sempre a Roma da Marco Rossi Lecce, che ha definito Losvizzero «un Mago di Oz contemporaneo»[2].
Nato da un avanzo di legno da intagliare, il personaggio partorito dalla fantasia di Carlo Collodi incarna la tensione tra il mondo domestico e familiare e il suo contrario, unheimlich. Come Lucio, l’eroe de L’asino d’oro di Apuleio (II d.C.), Pinocchio deve affrontare rocambolesche avventure e metamorfosi dai contorni paradossali; sopportare sopraffazioni e angherie; superare tutta una serie di prove per potersi, in fine, riscattare da oppressioni esterne, da interiori miserie e debolezze. Entrambi i romanzi raccontano la ricerca di una possibilità di “identità” da parte di un giovane ribelle, all’interno di una natura indifferente e di una società spietata. Entrambi si configurano come una sorta di percorso iniziatico verso il perseguimento di una sapienza per nulla convenzionale, ma proprio per questo, forse, più difficile da conquistare. Perché comporta l’emancipazione da identificazioni genitoriali, dalle idee dei maestri, dai modelli imposti dalla società. Comporta la resistenza all’autorità e al potere. La morte, temuta o minacciata, è infatti insistentemente presente e pervicacemente rinviata nelle due narrazioni. Dietro la paura della morte fisica si nasconde quella morale, da intendersi come situazioni interiori involutive o non umane, quelle che ci rendono vivi con tutte le caratteristiche di un morto, morti con tutte le inclinazioni di un vivo, come ebbe a scrivere Edgar Allan Poe. Oppure, il costituirsi dell’anaffettività, dell’invidia e della bramosia come “normale” modo d’essere.
Questi cicli d’iniziazione — che Vladimir Propp definisce il fondamento più antico della fiaba[3] — sono veri e propri viaggi di formazione, che attraverso l’esperienza concreta conducono i rispettivi protagonisti a una trasformazione reale e una ridefinizione dei ruoli. Tale esperienza si riflette nella scelta di un linguaggio semplice e diretto, che consente al lettore di riconoscersi nei personaggi e nelle situazioni narrate, di immaginarsi ambienti e vicende. Specifici passaggi da Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino (1881-1883), selezionati dall’artista per il loro contenuto filosofico, sono oggetto del lavoro d’improvvisazione dei performer sulla scena, i quali rievocano la favola ottocentesca lasciandosi guidare dal suono delle parole e dalle proprie intuizioni. Il teatro, dunque, diventa “esperienza fisica del pensiero in azione” e ha un ruolo attivo nel costruire la profondità di quelle immagini provenienti dal passato. Altri testi interpretati dai performer sul palco sono tratti, invece, dalla fiaba di Hans Christian Andersen che ha per protagonista L’intrepido soldatino di stagno (1838): munito di una gamba sola per penuria di materiale e succube di varie traversie, che gl’impediscono di coronare il suo amore per la ballerina di carta. Anche in questo caso siamo di fronte a un viaggio iniziatico e la mutilazione è il punto di partenza per un cambiamento o il passaggio a un diverso valore di esistenza. Come Pinocchio, il soldatino di stagno è ingoiato da un pesce e compie la discesa nell’inconscio abisso, avendo quale lontano prototipo il racconto veterotestamentario di Giona e la balena (VI a.C.), che il Vangelo di Matteo ha poi voluto leggere in chiave cristologica. È forse a causa di questo retaggio religioso che, differentemente da Pinocchio, nella fiaba di Andersen i due innamorati saranno finalmente uniti solo nella morte.
Esegesi simbolica a parte, le favole sono nate per spiegare e dare un ordine ai vissuti dell’uomo e al mondo, conosciuto o intuito. Il loro linguaggio universale, capace di accomunare intere generazioni da un continente all’altro della Terra, è una delle più misteriose espressioni della cultura umana o, sarebbe più corretto dire, dell’immaginario (Gilbert Durant). Misteriosa almeno quanto i sogni e, come questi, parte del nostro patrimonio genetico. Tanto che Claude Lévi-Strauss[4] definisce le fiabe un “costrutto culturale”, legato non tanto alla dimensione storica o geografica di una civiltà, quanto piuttosto all’attività della mente dell’uomo, alla sua capacità innata a produrre immagini, consciamente o inconsciamente.
Alla luce di queste considerazioni si comprende meglio l’interesse di Franco Losvizzero per l’elemento favolistico e fantastico, nonché l’attenzione da lui accordata al ripetersi di alcune costanti nelle storie di magia, dove sembra riconoscersi la grammatica di un processo mentale unico, le cui origini si perdono nella notte dei tempi dell’umanità, toccando nodi psichici o esistenziali profondi. In fondo, quello che le fiabe di magia raccontano è la possibilità di una realizzazione continuamente trasformativa di sé (il lupo diventa pelle di lupo), se l’Io rimane quello della speranza e del desiderio.
Per coincidenza, sia i racconti popolari sia la tragedia teatrale assolvono, per tradizione, a una funzione non solo conoscitiva ma catartica. Ognuno a suo modo, indaga il mondo in una dimensione emotivamente coinvolgente, tale da innescare nel pubblico il processo di trasformazione creativa degli affetti che attraversa l’opera. Ognuno a suo modo, offre una prospettiva di visione più ampia alle nostre passioni, innalzandole dalla sfera individuale a un ordine di respiro collettivo, che permette di vedere il senso celato delle cose.
Franco Losvizzero ha più volte detto che «portare l’attenzione sull’inconscio è l’unica possibilità per parlare di verità». Ritengo questa dichiarazione quanto mai interessante, per due motivi. Egli parla di verità pur muovendo da una poetica incentrata sull’irrazionale, la favola e il gioco. Recupera una nozione per decenni svalutata come mera “costruzione ideologica”, insieme a quelle di realtà e di fatto. Ce n’è abbastanza per provare a considerare la sua ricerca alla luce del dibattito sul Nuovo Realismo: annunciato nel 2011 dalla pubblicazione del volume di “MicroMega” verità/Verità (5.2011, 19 luglio) e scatenato a livello massmediatico dall’articolo di Maurizio Ferraris, Il ritorno del pensiero forte, su “la Repubblica” dell’8 agosto 2011, dove si dichiara la fine del postmoderno e l’avvio di un nuovo approccio epistemologico. Ma in cosa differisce il Nuovo realismo del XXI secolo dai realismi e nuovi realismi, che hanno cadenzato la storia dell’età contemporanea tra Otto e Novecento? Una risposta è offerta, forse, dal lavoro di Franco Losvizzero, dove le cosmologie riconquistano il ruolo loro sottratto dai mass-media, tornando a fornire visioni del mondo e visioni dell’uomo. Dove la trappola del realismo mimetico o tautologico è scartata, ed elusa la commistione tra realtà e finzione (che pure costituisce l’aspetto caratterizzante della società presente), per privilegiare con una precisa “scelta di parte” l’immersione nella realtà immateriale del corpo e scoprire lì il sussistere di un paradigma di verità ancora tutto da indagare, con il suo valore emancipativo e il suo potenziale trasformativo del reale.
Si tratta di una strada aperta, oltre cinquant’anni fa, da uno psichiatra eretico di nome Massimo Fagioli, autore nel 1974 di un saggio dal titolo quanto mai emblematico in questo contesto, La marionetta e il burattino. Dove si rifiuta l’idea di guarigione come adattamento a una realtà costituita, in favore della “verità come prassi”. Dove si mette in guardia dal marionettismo obbediente di un comportamento sociale conforme, tanto quanto dal burattinismo del pazzo, che fugge dalla propria delusione “rendendo inesistente” gli altri e se stesso, senza più riuscire a ritrovare neppure il suo “animale-corpo”, l’odio e la rabbia, l’umano di sé[5]. Dove si parla, anche e soprattutto, di realtà umana come “capacità di immaginare” e di desiderio come “reale rapporto interumano”, poiché, al di fuori di malattie e scissioni, il corpo è mente e la mente corpo. (RED- Giut)