Il Presidente Onorario di Fondazione Roma e Presidente di Fondazione Terzo Pilastro Internazionale difende l’importanza e l’efficacia delle riforme Amato e Ciampi e ricorda quanto decisiva sia la funzione sociale di questi enti soprattutto in momenti di crisi
di Guido Talarico
In un momento di crisi economica grave, come è quella verso la quale il nostro Paese e larga parte dell’Europa sta andando, abbiamo cercato di capire quali siano gli strumenti collaterali alle istituzione e al sistema economico finanziario di cui può disporre l’Italia. Uno dei più importanti è quello del Terzo Settore con a capo le fondazioni che per missione devono appunto lavorare per aiutare le classi più deboli e bisognose. Per fare il punto abbiamo intervistato il Professor Emmanuele F.M. Emanuele presidente onorario di Fondazione Roma e Presidente di Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, due delle poche istituzioni no-profit che oltre a rispettare in pieno i dettami delle riforme Amato e Ciampi, hanno saputo, grazie ai loro bilanci sempre floridi, dare con costanza grandi aiuti ai territori italiani ed esteri in cui operano.
Come funziona il sistema delle fondazioni italiane definite di origine bancaria? Ha ancora una sua efficacia ed utilità?
Non sono in grado di poter dare un giudizio sul funzionamento delle fondazioni italiane di origine bancaria, perché, non facendo la Fondazione Roma parte dell’ACRI, e non avendo io conoscenza diretta dell’attività delle singole fondazioni facenti parte della stessa associazione, la mia valutazione non sarebbe rispondente. Essa, infatti, si limita alla lettura di giornali, che spesso riportano comunicati relativi alle attività delle fondazioni nel campo del sociale, seppure preminentemente di quelle più dotate dal punto di vista patrimoniale. Io ho sicuramente un mio convincimento, ovvero che il ruolo delle fondazioni ha ancora assolutamente una sua efficacia ed utilità sebbene, come spesso viene riportato, circa la metà delle stesse sono in condizioni decisamente poco favorevoli a dare le risposte ai bisogni del territorio, tanto che – come si legge – in alcune aree, esse si sono determinate a pervenire ad un progetto di fusione, che consenta loro una maggiore disponibilità patrimoniale e, auspicabilmente, anche di mezzi per poter intervenire nel sociale.
Le riforme Amato e Ciampi sono state un fallimento o hanno sortito effetti positivi sul sistema Paese?
Io esprimo un giudizio totalmente favorevole su entrambe le leggi. La prima, del 1990, di Giuliano Amato, mirava sicuramente a dare una connotazione istituzionale molto più definita e autonoma alle fondazioni, separando l’attività bancaria da quella filantropica e umanitaria. Per quanto riguarda la legge Ciampi, del 1998, essa, ancora con maggiore determinazione, statuiva di fatto la separatezza dell’attività creditizia da quella istituzionale di tali soggetti. Non vi è dubbio, quindi, che queste riforme siano state opportune, preveggenti e validamente prospettate, e le finalità a cui erano demandate e le caratteristiche con cui attuarle hanno certamente influito sul sistema Paese. Tuttavia – duole dirlo – la gran parte delle fondazioni non ha voluto recepire appieno il dettato delle due norme, indotta a ciò dall’ostinarsi a voler partecipare al capitale delle aziende bancarie e molto spesso facendo condizionare le proprie scelte dalla presenza di realtà politiche territoriali nei propri organi, che ne hanno sicuramente influenzato l’operare. Quindi, se possiamo capovolgere la domanda, le riforme Amato e Ciampi hanno sortito sicuramente effetti positivi sul sistema Paese, e lo avrebbero fatto anche di più, ma la modalità di applicazione da parte della gran parte delle fondazioni ha fatto sì che il principio che ispirava questa grande trasformazione, non realizzandosi, abbia provocato di fatto un minore risultato del progetto. La responsabilità della mancata piena attuazione del disegno dei due legislatori va attribuita al vertice dell’associazione di categoria, l’ACRI, della quale ero Vicepresidente e dalla quale mi sono dimesso nel 2010, e della quale contestualmente anche la Fondazione Roma ha deciso di non farne più parte; ACRI che ha preferito assecondare sollecitazioni provenienti dal mondo politico, e puntellare il sistema bancario, indebolendo la capacità di intervento filantropico sul territorio delle fondazioni associate.
Lei ha fatto sempre scelte coerenti con il dettato del legislatore. È soddisfatto degli esiti?
Come Lei ben dice, la Fondazione Roma durante la mia presidenza si è attenuta scrupolosamente al dettato delle due leggi precedentemente citate. Siamo usciti dal sistema bancario non subendo neanche la suggestione della proposta, allora formulata, di creare una grande banca del territorio, Capitalia, attraverso la fusione delle realtà già acquistate, Banca di Roma e Banco di Santo Spirito che, con la Cassa di Risparmio di Roma, avrebbero dovuto perseguire, appunto, la creazione di un polo bancario di eccellenza. Io, sin dal primo giorno, espressi serie perplessità su questa operazione per un duplice ordine di considerazioni: la prima, la compresenza nel nostro Paese e nel nostro territorio di strutture bancarie di ben altre dimensioni, anche internazionali; la seconda, soprattutto perché – a mio modo di vedere – lo spirito che aveva creato, grazie alle disposizioni di Papa Paolo III nel 1539, il Monte di Pietà, e successivamente nel 1836 con Papa Gregorio XVI, la Cassa di Risparmio di Roma, veniva in qualche modo tradito. I due Pontefici, infatti, avevano voluto chiamare i rappresentanti del mondo dell’aristocrazia romana e della borghesia a contribuire alla creazione di questi istituti di credito, ma con una indicazione precisa, che prevedeva che gli utili – dopo gli accantonamenti e dopo la corresponsione degli oneri gestionali – dovessero essere destinati alle classi meno fortunate del territorio, cosa che la nascente banca sicuramente non avrebbe potuto fare. Coerentemente con questo punto di vista, mi sono sempre manifestato contrario sia a partecipazioni bancarie, sia ad iniziative di coinvolgimento di forze politiche nella gestione della Fondazione Roma, e conseguentemente, quando il potere politico – come io avevo paventato, complice ancora una volta l’indecisione della categoria interessata – decise di allungare le mani sui patrimoni delle fondazioni pubblicizzandole (legge Tremonti del 2001) mi opposi per primo, fra tutte le fondazioni chiamate ormai impropriamente “di origine bancaria”, e sollevai la questione davanti ai competenti organi giurisdizionali (TAR e Consiglio di Stato), ottenendo il rinvio alla Corte Costituzionale, alla quale noi adimmo in giudizio per primi e separatamente da
tutte le altre fondazioni, che presentarono con notevole ritardo l’istanza di opposizione. La sentenza della Corte (n. 301 del 2003) fu inequivoca e riconobbe la natura privata della Fondazione Roma. Subito dopo, il Ministro, pur sconfitto, ha indotto le fondazioni (la Fondazione Roma esclusa) ad entrare nella Cassa Depositi e Prestiti e nel Fondo Atlante, che ha concluso precocemente in maniera fallimentare il suo compito. Ciò che è accaduto dopo, dimostra l’assoluta ed incomprensibile decisione del mondo politico di avversare questo percorso di affermazione dell’identità privata delle fondazioni al quale io faccio riferimento, ostinandosi a chiamarle, dopo quasi 40 anni, “fondazioni di origine bancaria”, per cui le fondazioni sono tutte soggette al controllo del Ministero dell’Economia e delle Finanze, nonostante che questo controllo si eserciti sia su realtà che a pieno titolo avrebbero motivo di dover essere controllate, perché ancora in possesso di rilevanti partecipazioni bancarie, e fondazioni come la nostra che assolutamente non presentano caratteristiche che debbano renderle soggette al controllo. Queste ragioni le ho manifestate con un ricorso dapprima al TAR, che ha condiviso in pieno la mia tesi, e quando al Consiglio di Stato, a seguito dell’appello presentato dal Ministero, stava per essere discussa la causa, il Ministro di allora, sempre Tremonti, con una “leggina” statuì che fintantoché non fosse stata varata una legge per regolamentare quanto da me asserito circa la natura privata, e non di origine bancaria, delle fondazioni, e indipendentemente dalla circostanza che le fondazioni controllino, direttamente o indirettamente, società bancarie, esse sarebbero dovute rimanere sotto il controllo del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Incidentalmente, sono passati da quella data 23 anni, senza che il legislatore, nel corso di tale lasso di tempo, si sia dato carico di dirimere questa questione. In conclusione, quindi, sono convinto di aver fatto quanto dovevo nel rispetto dei legislatori a cui ho fatto sempre riferimento, ma, per quel che mi riguarda, sono assolutamente insoddisfatto dell’esito, alla luce di queste anomalie amministrative e giudiziarie che ci hanno riguardato.
In un momento di così grave crisi economica cosa devono fare le fondazioni per dare il proprio utile contributo al Paese?
Devono perseguire con coerenza, e avendone la possibilità economica, gli obiettivi che dovrebbero essere alla base di tutti i loro Statuti, ovvero di aiuto in quei settori dove lo Stato è meno presente, quali la salute, l’aiuto ai meno fortunati e l’istruzione, che è lo strumento, assieme alla cultura, atto ad abbattere le barriere sociali, di distinzione fra le classi e, in prospettiva, anche quelle etniche e religiose. Ciò è quello che – posso dirlo con orgoglio – oggi la Fondazione Roma, di cui non sono più il Presidente, continua mirabilmente a fare.
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