By Dr. Nidal Shoukeir*
Che i talebani siano tornati al potere in Afghanistan vent’anni dopo essere stati sconfitti dalle forze della coalizione internazionale guidate dagli Stati Uniti non dovrebbe destare sorpresa. La loro scintilla non si è mai spenta. Fin dall’inizio il gruppo infatti, lungi dal dissolversi, è andato trasformandosi in un movimento che ha organizzato e condotto nel corso del tempo numerosi attacchi sia contro l’alleanza occidentale che contro il governo afghano appoggiato da Washington, infliggendo a entrambi pesanti perdite materiali. E si puo’ dire anche che i negoziati avviati con loro dagli Usa nel 2018 e la firma dell’accordo di pace del 2020 siano stati il preludio degli eventi delle ultime settimane.
Detto questo, la velocità con cui i talebani sono riusciti a controllare il Paese dopo l’annuncio del ritiro delle forze Usa è stata una grande sorpresa e uno shock per il mondo. Si credeva che le forze talebane avrebbero impiegato almeno diverse settimane per prendere il controllo di Kabul e che l’esercito afghano avrebbe organizzato settimane di resistenza e combattimenti, soprattutto per la sua superiorità numerica, di equipaggiamento e di addestramento.
Tuttavia la situazione sul campo si è rivelata diversa. I talebani sono riusciti a conquistare Kabul in poche ore senza incontrare alcuna resistenza significativa da parte delle truppe regolari. E con la fuga all’estero del presidente Ashraf Ghani, le caratteristiche di “democrazia moderna” e l’illusione di un Afghanistan libero dal fondamentalismo sono svanite all’istante. Il caos si è rapidamente diffuso gettando ombra sulla sicurezza e sulla scena politica, mentre il mondo, nell’assistere al ritorno dei talebani che nella loro nuova veste autoproclamavano la nascita dell’Emirato Islamico, evocava le immagini della Saigon del 1975.
La domanda ovvia è cosa accadrà ora? Il ritorno in auge, con uno slancio nuovo e l’accettazione da parte della comunità internazionale, di un movimento estremista come quello dei talebani avrà senz’altro notevoli ripercussioni su venti anni di politiche internazionali messe in atto nell’ambito della guerra globale contro il terrorismo. Una guerra, che lanciata dal presidente repubblicano George W. Bush nel suo famoso discorso del 2001 “Sei con noi o con i terroristi?”, secondo alcuni ora, nell’era dell’amministrazione del presidente democratico Joe Biden, avrebbe subito un colpo mortale. E si può ben sostenerlo. La riconquista talebana del potere ha dimostrato il fallimento di strategie, fondate sull’opzione militare e sulla sicurezza, strategie, che hanno prodotto successi relativi e a breve termine, ma che non state in grado di fronteggiare le ideologie estremiste e terroristiche.
L’uscita dell’Occidente da Kabul in questo modo e il ritorno al potere dei Talebani hanno sollevato interrogativi fondamentali sul significato e sul senso di un’offensiva durata due decadi e che si è conclusa con l’Afghanistan di nuovo al punto di partenza. C’è da chiedersi se l’Afghanistan del 2021 sia essenzialmente lo stesso Afghanistan che era nel 2001. E’ troppo presto per dirlo, ma è un dato di fatto che il paese abbia invertito la rotta tornando a essere un emirato islamico governato da un gruppo estremista. Cosa che apre alla possibilità che altri gruppi estremisti e terroristi come ISIS e Al-Qaeda possano trovarvi un rifugio sicuro da cui operare e colpire obiettivi in tutto il mondo.
Come risultato di questo fallimento, alcune voci in Europa cominciano levarsi a sostegno della necessità di nuovi approcci per combattere l’estremismo e il terrorismo che minacciano il mondo intero e le nostre società, basati sulla necessità di compiere uno sforzo intellettuale per combattere il nocciolo del problema, che è costituito dalle ideologie e dalle idee estremiste, che sono le le principali armi dei fondamentalisti e dei terroristi.
Dopo l’esperienza in Afghanistan, si può affermare che le idee si combattono solo con le idee, tenendo conto del grande ruolo che comunque la sicurezza riveste nell’ affrontare le sfide e le minacce immediate. È anche importante ricordare che le modalità del ritorno al potere dei talebani e il silenzio internazionale fisseranno in maniera definitiva le caratteristiche della fase che seguirà. La sensazione ora è che l’obiettivo principale sia quella di mettere in contro la normalizzazione dei rapporti con i talebani e l’accettazione del loro emirato islamico all’interno della comunità internazionale. E che tutte le grandi potenze, preoccupate affinchè l’Afghanistan non si trasformi in un’oasi del terrorismo internazionale come prima, abbiano aperto canali di comunicazioni, intrattengano rapporti con il movimento e siano pronte a riconoscerlo presto.
Questo nuovo approccio, impresso dagli Stati Uniti, si basa principalmente sull’idea di poter contenere in qualche misura la forza di impatto di entità estremiste, attraverso l’accettazione della loro presenza all’interno di un ambito geografico limitato e relativamente distante e attraverso forme di cooperazione contro altri gruppi fondamentalisti. Pertanto, il processo di normalizzazione internazionale con i talebani è dietro l’angolo. Washington lo ha avviato e altre nazioni probabilmente seguiranno l’esempio. Si tratta di un processo che si fonda sul dialogo e include dimensioni di sicurezza, simile a quello sperimentato dalla Francia. Il cui ulteriore passo includerà il monitoraggio mirato del comportamento dei vari movimenti, l’ampliamento dei negoziati e infine il pieno riconoscimento.
Naturalmente, fino ad ora non c’è consenso su questo approccio. Piuttosto, è una questione controversa ed è osteggiata da molti leader dei paesi europei, soprattutto per ostacoli di ordine valoriale e morale. Inoltre, ci sono alcuno che si rifiutano di credere a una strategia del genere, considerandola folle o ridicola. Sarà dunque davvero il periodo post-talebano “il tempo dell’estremismo bello” come ha detto sarcasticamente uno dei politici europei di spicco?
* Professor of Strategic Communications and Governmental Relations, Paris
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