di Gaia Stanzani
Seaspiracy è un pugno allo stomaco che – nell’immediato – spinge anche i consumatori di pesce più incalliti a rivedere le proprie abitudini alimentari. Dal suo lancio su Netflix a Marzo 2021, Seaspiracy si è trovato subito al centro di una controversia. Il docufilm fa letteralmente a pezzi l’industria ittica, smaschera lo schiavismo che alimenta la pesca commerciale dei gamberi in Tailandia, scredita le ONG ed il concetto di pesca sostenibile.
Seaspiracy è opera dello stesso team che ha prodotto Cowspiracy, documentario che attacca con altrettanto vigore l’industria agraria e che, in ultima analisi, proprio come accade con Seaspiracy, sollecita i consumatori a spostarsi verso una dieta a base vegetale. Anche se la missione ultima di mettere a nudo lo stato di declino drammatico e inconfutabile degli oceani è cosa nobile, metodo e messaggio finale utilizzati sono discutibili.
I dati scientifici a supporto delle principali argomentazioni sono ben lungi dall’essere precisi. Come sostenuto da Karn McVeigh nel The Guardian, Ali Tabrizi, il regista, è stato “accusato di errata interpretazione dai partecipanti” secondo i quali le interviste rilasciate e le statistiche scientifiche sono state riproposte fuori dal loro contesto. Varie statistiche vengono utilizzate per dimostrare che la maggior parte dei rifiuti di plastica nel mare deriva dalle reti da pesca piuttosto che da rifiuti plastici provenienti dal consumo umano.
Questi dati sono stati fortemente criticati da vari biologi marini quali Daniel Pauly in quanto minimizzano l’impatto ecologico individuale dei rifiuti di plastica da consumo umano. Nel suo articolo su Vox Media, Pauly sostiene che il documentario ha ribaltato i dati statistici: in effetti, l’80% della plastica negli oceani deriva dal consumo umano mentre il rimanente 20% è dovuto alle reti da pesca. La inesattezza scientifica più eclatante è la previsione che il mare si troverà svuotato completamente di pesce nel 2048.
I dati si basano su uno studio obsoleto svolto da Boris Worm nel 2006 e da lui stesso successivamente rinnegato nel 2009 in un suo articolo pubblicato nel Journal of Science. Inoltre, le conclusioni dello studio di Worm del 2006 sono state citate erroneamente nel documentario in quanto nel suo studio di allora Worm rimane ottimista sulla possibilità dell’ecosistema marino di riprendersi attraverso “una gestione integrata della pesca, un controllo dell’inquinamento, il mantenimento degli habitat essenziali e la creazione di riserve marine”.
Nel suo studio, Worm quindi riconosce i vantaggi della pesca sostenibile, concetto invece respinto dal documentario. Molti scienziati come Daniel Pauly contestano quanto asserito in merito nel documentario, offrendo vari esempi dell’impatto ecologico positivo della pesca sostenibile, fra i quali il ripopolamento dell’austromerluzzo della Patagonia. Nel respingere la “pesca sostenibile”, il documentario attacca anche le ONG, in particolare la MSC, noto marchio di etichettatura della pesca sostenibile. In risposta al documentario, la MSC ha ribadito la validità ecologica della pesca sostenibile, affermando che permette a “pesce e a stock di riprendersi e ripopolarsi a lungo termine”, citando a conferma della sua tesi il ripopolamento del nasello della Namibia.
Il documentario rischia di fare più male che bene concentrando i suoi sforzi sulla criminalizzazione delle ONG invece di andare alla radice del problema ed attaccare direttamente le lobby della pesca. Un approccio con efficacia maggiore nel tempo sarebbe la promozione di cambiamenti governativi e legislativi piuttosto che una focalizzazione sul singolo impatto del consumatore. L’appello culminante di Seaspiracy al veganismo non rappresenta una soluzione sostenibile e realistica di fronte alla devastazione delle acque marine in quanto non affronta le complessità economiche e sociali che sono alla base del consumo di pesce nei paesi del terzo mondo.
Inoltre, sembra proporre una visione di parte della industria ittica asiatica come indicato da Chris Williams nel suo articolo New Economics Foundation, proponendo tropi razziali sprezzanti, illustrando il mercato ittico asiatico come antagonista criminale e gli ambientalisti bianchi come dei messia eroici. Il suo drastico appello al veganismo e la sua visione di parte e cataclismatica della industria del pesce non solo mette in disparte i paesi del terzo mondo, ma, alla fine, rischia anche di non sortire effetto nel voler cambiare le abitudini del consumatore del mondo sviluppato. Offrire una soluzione intermedia sempre più “sostenibile” come ad esempio una riduzione e non una eliminazione del consumo di pesce dimostrerebbe nel tempo la sua sempre maggiore efficacia.
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